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Vita incarnata = prestiti e restituzioni

Circa una settimana fa, tra qualche ora, stavo per entrare in sala operatoria, pronto a sostenere la mia tesi. Immagino vi chiediate quale tesi. La tesi che non siamo questo corpo.
 
Il corpo non è persona, è cosa. In una determinata forma esiste per un po’ di tempo e poi niente più. Ma non è sufficiente una certezza sul piano della logica per permetterci di fronteggiare adeguatamente la perdita del corpo.

Dobbiamo realizzare e dimostrare, non al vicino di casa o ad altri, bensì a noi stessi, che il sapere corrisponde all'esperienza. Ciò infatti è di fondamentale importanza nei momenti cruciali della vita, quando ci troviamo ad elaborare perdite fisiche o affettive che siano, come nel caso di tradimenti o abbandoni.

Il corpo in realtà, più che perderlo, lo restituiamo. In verità non l’abbiamo mai avuto, mai è stato nostro, mai lo abbiamo posseduto definitivamente. Potremmo piuttosto dire che lo avevamo in affitto.
Anni fa usavo spesso un’espressione che recentemente mi è tornata vivida alla memoria: “sentirsi in prestito”. È un altro concetto che può aiutarci molto. Io non penso che l'abitazione in cui vivo sia mia, piuttosto sento di averla presa in prestito. E così questo corpo.

Abbiamo tutto preso in prestito. Dunque, quando le circostanze ce ne privano, non lo perdiamo ma lo restituiamo.


In una conversazione di ieri sera, parlando con una cara persona, ho detto: “Se ci sarò, lo farò volentieri”.
Nella mia vita ho sempre fatto progetti a lungo termine, pur nella consapevolezza della nostra temporaneità in quanto incarnati. 

Non sono nelle nostre disponibilità il corpo, la longevità o la salute. Non possiamo fermare un uragano con le mani, né una malattia. Nemmeno possiamo pilotare le decisioni di altri. Se ci abbandonano, non possiamo che accettare il loro volere. 

Famiglia, amici, genitori, guru...: nessuno è nelle nostre disponibilità. A volte testimoniamo persone, anche care, fare cose insulse, totalmente inaspettate, ma poiché la volontà altrui non ci compete, meglio non preoccuparci eccessivamente di ciò che non possiamo gestire, altrimenti mal riponiamo e dilapidiamo le nostre energie, con conseguenze disastrose sul carattere, la personalità e l'umore.



Un'attitudine equilibrata ci predispone ad elaborare le risposte più adeguate agli eventi e a trovare la migliore soluzione. Senza questa moderazione e capacità di equilibrio, ci incolleriamo e rattristiamo eccessivamente, diventando ostaggi di altri e di circostanze contingenti.

Non andate in giro a lamentarvi: “Che disgrazia che mi è capitata, questa non me l’aspettavo proprio...”
Significa forse che dovremmo aspettarci tutte le disgrazie del mondo? No, non intendo affermare questo, anzi. Se pratichiamo le virtù, il servizio devozionale, la compassione e la misericordia, la veridicità, la pulizia, l'ordine, la moderazione, la solidarietà e ogni altro aspetto che caratterizza la retta condotta, non saremo travolti dal male, ma ciò non toglie che potrebbero arrivarci alcune schegge di quel male od eventi che noi erroneamente interpretiamo come tali.



I saggi non si lamentano né per chi va, né per chi viene.
Non si tratta un’affermazione empia o priva di compassione, bensì è la più pia che si possa immaginare, pronunciata da Krishna nella Bhagavad-gita (II.11). 

Nasce dalla consapevolezza che questo mondo è organizzato in maniera perfetta, con complessi algoritmi che reciprocano tutti con gioie e sofferenze, necessarie al percorso evolutivo di ognuno. Ognuno ha quel che deve avere. Chi va e chi viene, entrambi questi movimenti sono regolati dalle leggi del Dharma e del Karma, in base alla volontà e alle scelte individuali.


Ognuno è responsabile della propria vita. Al nostro combinato disposto di guna-karma, corrisponde un determinato dovere. Sta a noi scegliere se assolverlo o meno, e di conseguenza fronteggeremo reazioni di segno opposto, positive o negative che siano.

Pian piano nel nostro percorso esistenziale andremo infatti incontro alle conseguenze di azioni che noi stessi abbiamo attivato.

Nessuno dovrebbe dunque rifugiarsi dietro alla falsa giustificazione del fatalismo.




Anche quando ciò che rientra nelle nostre disponibilità ha oggettivamente una misura ed un impatto limitato, occorre comunque fare il meglio di quel che è possibile. Poco o tanto che sia, è importante fare tutto quello che è in nostro potere, non ristagnando nella cosiddetta zona di comfort, evitando deresponsabilizzazioni e anche il loro opposto, ovvero il sovraccaricarsi di responsabilità altrui. Se così agiamo, andremo sereni anche in sala operatoria, o in qualsiasi altro luogo, certi che comunque vada, andrà bene. E questo anche quando avremmo desiderato o immaginato tutt'altro. Non siamo infatti sempre così intelligenti e consapevoli da auspicare il meglio, bensì il più delle volte ci accaniamo a conseguire ciò che corrisponde soltanto alla forza di attrazione coatta esercitata dalle nostre tendenze condizionate.

[appunti presi durante la lezione odierna di Matsya Avatara das a Bhaktivedanta ashrama]

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