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L’Alta Poesia della Bhagavad-Gita

Matsyavatara dasa - Marco Ferrini

Una volta erano le muse che smaltivano le sofferenze degli uomini.
La poesia, quando veicola insegnamenti spirituali, trasforma la malinconia e la sofferenza in gioia. E’ questa la sua alchimia.
E la Bhagavad-gita è tutta una Poesia. C’è una Poesia in ogni shloka. E c’è anche una continuità tra uno shloka e l’altro. Provate a leggerli assieme, uno dopo l'altro, e mano a mano che proseguite la lettura, meglio se a voce alta o comunque in maniera udibile, sentite che si alza un’alta Poesia.
L’alta Poesia è capace di traghettarci dalla sponda in cui si soffre a quella in cui si gioisce. E’ in quest’ottica che va letta una frase di Gandhi in cui dice: “La mia vita è stata disseminata di tragedie, di drammi, di sofferenze. Se ho potuto venirne fuori è stato solo grazie alla lettura della Bhagavad-gita”.

La Bhagavad-gita comunque non va solo letta ma va vissuta, perché se la si legge soltanto non si coglie l’insegnamento più alto.
Dal nome greco “musa” viene anche la parola musica. Le Muse erano nove: il disegno, la pittura, la storia, la poesia, l’astronomia, la danza, ecc.
La Bhagavad-gita è cantata dalla più elevata delle muse, Krishna. Voglio dirlo per inciso: Krishna non è un dio geloso e nemmeno vendicativo, Krishna è misericordioso e amorevole. E lascia le persone libere di decidere in base ai propri desideri, ma non come farebbe una madre anaffettiva, Krishna non si gira mai dall'altra parte.
Prima dà insegnamenti e poi lascia che le persone agiscano secondo il loro livello di coscienza e di comprensione, secondo la loro sensibilità. “Accordingly”, direbbe Prabhupada. Nel rispetto della libertà si manifesta il supremo Amore.
E così le persone andranno incontro a quello che a loro apparirà il loro destino, ma il destino non c’entra. C'entra la scelta: o scegliamo l’Io, con le sue ombre tenebrose, oppure scegliamo Dio.
Sembra che tra le parole "Io" e "Dio" non ci sia poi molta differenza, solo una consonante li separa, ma invece la differenza c’è ed è sostanziale.
Un conto è agire con motivazioni egoiche, per compiacere l’io storico, la personalità fittizia costituita dalla somma di tutti i contenuti psichici con cui la persona si identifica (definizione di Jung), ben altro è avere il coraggio di guardarci dentro e cercare il nostro vero sé, pregando e chiedendo l’aiuto di Dio per trovarci.
Trovare se stessi e trovare Dio non è un’operazione separata perché, come ci dicono le Upanishad, essi stanno come sullo stesso ramo dello stesso albero, sono accosti l’uno all’all’altro, tanto che si spiega che Dio dimora nel cuore di ogni essere (cfr Bhagavad-gita XV.15). Ma se invece di guardare all'albero, se ne concupiscono egoisticamente i frutti, non si riuscirà a percepire e a realizzare né noi stessi, né Dio.

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