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Condividere ricordi speciali - Un'esperienza indimenticabile parte III

Matsyavatara dasa - Marco Ferrini

Dal diario di Citrarupini mataji che ci racconta l'esperienza del seminario tenuto a fine dicembre da Shriman Matsyavatara Prabhu sulla prima parte del diciottesimo capitolo della Bhagavad-gita..

Yoga è connessione a Dio. La persona deve rimanere connessa alla sua matrice divina, a Dio, al Principio al quale sta tornando. Questa non discontinuità nella pratica dello Yoga, ovvero rimanere connessi senza distrazioni nei confronti del fine della vita, è sattvica. Noi non siamo tagliati per vivere in questo mondo, in questa struttura di materia. Tutte le patologie scaturiscono da questa struttura psicofisica, nessuna dall’anima! Quello dell’incarnazione è un problema senza soluzioni, è una trappola senza scampo.
Nello shloka 35° è descritto che tamas è come una persona alla guida di un potente veicolo che si lascia cogliere da un momento di sonno. In un attimo può rovinare la propria vita e quella di molte persone. La sua determinazione la porta a non avere mai quello che desidererebbe avere, perché non ha metodo.
Ognuno deve operare a seconda delle sue possibilità per superare i suoi limiti. Attraverso questo impegno svolto con l'aiuto di una guida qualificata, la persona riesce ad allentare la presa nei confronti degli oggetti concupiti.

Quella presa produce cecità selettive. Lo scopo è liberarsi da esse e imparare a suonare nelle proprie corde. Per riuscirci occorre avere sotto gli occhi un modello vivente, nutrendosi di quella certezza che si può vivere tutti i giorni così.
Lo shloka 36°sottolinea l’importanza di un modello: quando si vede un modello che è fuori dalla dinamica violenta del nascere e del morire, c’è la possibilità di accogliere quel modello e farlo proprio nella vita. Il metodo che ci viene proposto è la pratica costante, abhyasa che spezza la catena delle nascite e morti. Abhyasa è funzionale al fine che è la felicità.
Adesso Krishna descrive la felicità collegata a chi vive in sattva guna, ovvero che vive nutrendosi di cibo sattvico ( e uno dei cibi più influenti sono le relazioni!). Quando si parla di sattva, il sukham identifica la gioia, con rajas scivola verso il piacere, con tamas scade nello stordimento dell’ignavia, dell’indolenza, dell’empasse, del dubbio: quello stordimento che assomiglia alla paralisi.
La disciplina produce sukham. Siamo soddisfatti quando colleghiamo l’intelletto all’anima; la soddisfazione che scaturisce da ciò è detta sattvica; quando è collegata ai sensi si dice rajasica e quando c’è uno sprofondamento nella miseria e nella colpevolezza, si ha il predominio crescente di tamas.
Lo shloka 39°ci insegna che in nessun caso, né come esseri umani né come esseri celesti, possiamo sottrarci completamente alle tre influenze della natura, ma possiamo scegliere da quale essere condotti. Se siamo condotti da sattva guna la vita diventa semplice e felice.
L’amore è una delle forze più possenti per destrutturare il male, non in senso mitico, ma come ciò che è avverso alla nostra evoluzione.
Il bene non è la gratificazione dei sensi, la comodità, la ricchezza e il potere; l’uomo non può diventare felice in virtù del possesso delle cose. E’ come se volesse soddisfare la sete bevendo acqua di mare.
L’uomo diventa felice quando sviluppa le sue facoltà superiori, quando nobilita la propria vita, e fa emergere quella scintilla divina che ci fa simili a Dio, ed è allora che noi agiamo come un riflesso di Dio e l’amore di Dio si riflette attraverso la nostra ritrovata natura spirituale.
Lo shloka 44-45°ci ricorda che il compimento del dovere prescritto ci sottrae all’influenza negativa dei guna e ci permette di evolvere gradino dopo gradino, fino a ricongiungerci alla nostra vera identità, a tutti gli esseri e spezzare le catene che ci incatenano. Ciò può avvenire anche prima della morte.
Il pensiero della Bhagavad-gita non è astrattamente spirituale ma concretamente spirituale. Ci nobilitiamo o ci degradiamo a seconda di come agiamo. Il percorso è individuale, arriviamo da soli e partiamo da soli. Abbiamo da rendere conto di quello che facciamo, non di quello che fanno gli altri.
Lo shloka 47 ci dona la visione che alla fine della vita dobbiamo lasciare tutto, dobbiamo pianificare di andarcene come siamo arrivati, con nulla di materiale. Se non siamo evoluti, nella vita successiva ricomincia la tiritera di volerci appropriare di quel che avevamo. Dobbiamo offrire tutto quello che abbiamo.
"Offrite la vostra amicizia sincera alle persone attorno a voi e quel che ricordate di questo seminario alle persone care…chi offre quel che ha lo possiede per sempre, chi lo trattiene lo perde”.
E’ con questo sentimento che desidero condividere con voi questi ricordi speciali, perché la gioia non è la gioia di ieri o di domani, ma quella del momento in cui la stiamo vivendo. Con profonda gratitudine,
vostra servitrice,
Citrarupini dasi (scritto in collaborazione con Kunjabihari devi dasi)

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